Perché le destre vincono
in Europa
di Sara Gentile
Mancano solo due mesi alle elezioni europee e lo scenario politico in diversi paesi si presenta preoccupante; il vento di destra sembra soffiare costante, un’onda tenace che torna a lambire con fragore coste e territori sgretolando impietosamente il paesaggio e il suo profilo.
I segnali di una trasformazione della mappa geopolitica, iniziati diversi anni fa, si sono via via accentuati, irrobustiti, fino a diventare di lunga durata ed allargando il perimetro della loro influenza. I movimenti o i partiti populisti, cominciati a fiorire a metà degli anni ‘70 del Novecento con in testa la Francia e poi il Belgio, hanno continuato la loro espansione in altri paesi dell’eurozona.
Venti di destra in Europa
In Italia con la Lega Nord di Bossi prima, poi con Forza Italia di Berlusconi, con il Movimento 5 Stelle;
in Germania con la ADF (Alternative für Deutschland), partito di estrema destra con marcate componenti razziste ed euroscettiche che alle ultime europee ha raggiunto l’11% circa dei suffragi ottenendo 11 seggi al Parlamento europeo e aderendo al gruppo Identità e Democrazia;
in Ungheria con Fidesz (Unione Civica ungherese), partito nazionalista e ultra conservatore il cui leader Viktor Orbán, primo ministro dal 2010 stabilmente fino ad oggi, ne ha accentuato i tratti reazionari introducendo nel paese leggi illiberali (limitazione forte della libertà di stampa, controllo occhiuto della società, leggi severe anti immigrazione, restrizioni per la carriera universitaria alle donne) che hanno minato la democrazia e lo configurano come sistema autoritario;
in Spagna il partito di estrema destra Vox, xenofobo, fortemente nazionalista, fondato nel 2013, ha continuato a progredire nel consenso elettorale e rafforza la leadership dura di Santiago Abascal che si è di recente assicurata la presidenza del partito fino al 2028 con una designazione diretta interna, una sorta di plebiscito senza passare dalla votazione degli iscritti, per silenziare i dissensi interni. Alcuni sondaggi recenti prevedono una affermazione di Vox al terzo posto nelle imminenti elezioni europee tanto da fare lanciare l’allarme al primo ministro Sánchez che chiede al partito conservatore di Alberto Ñúnez Feijóo di cessare gli accordi con la destra estrema.
Il “populismo patrimoniale”
Per completare il quadro vi sono inoltre le democrazie nordiche, paesi come Norvegia, Svezia, Danimarca nei quali, come analizzato da Dominique Reynié (penso soprattutto a Les nouveaux populismes, Pluriel, 2013) si è sviluppato un “populismo patrimoniale” con tratti diversi da quelli dei paesi mediterranei, che deriva dal duplice timore di ampie fasce di cittadini di vedere in pericolo non solo il loro benessere materiale, ma anche e soprattutto un patrimonio immateriale, di valori, simbolico, uno stile di vita che il processo di globalizzazione e il venir meno della sovranità dello Stato nazione minacciano di spazzare via.
Italia e Francia: due casi studio
L’Italia ha con i cugini transalpini alcune affinità e molte differenze, in un intreccio che ci consente di misurarne distanza e vicinanza.
In Italia abbiamo da un anno e mezzo un governo di destra dopo la vittoria elettorale del settembre 2022 in cui la coalizione di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia ha ottenuto il 44% dei voti assicurandosi la maggioranza assoluta nelle due Camere. Il PD ha raggiunto il 19%; il Movimento 5 Stelle il 15,6%. La punta emergente è stata Fratelli d’Italia con il 26% dei suffragi, già in consistente avanzata alle precedenti amministrative, seguita a molta distanza da Lega (8,8%) e Forza Italia (8,1), cosa che è valsa a Giorgia Meloni la carica di primo ministro e al suo partito di essere la forza trainante dell’esecutivo.
Un risultato elettorale questo che ha trasformato profondamente l’assetto politico italiano, premiando dei tre partiti della coalizione quello che era rimasto all’opposizione del precedente governo di Mario Draghi, un tentativo intelligente ed autorevole di comporre la conflittualità del nostro sistema partitico per rispondere alle richieste di una società, come altre in Europa, colpita da una crisi economica, sociale, culturale, poi inasprita dalla guerra della Russia in Ucraina.
Oggi che il futuro del progetto europeo è più indeterminato che mai, tra avversari interni e nemici esterni, questa nuova modalità di “fusione al centro” potrebbe aprire la strada a nuove e interessanti prospettive di integrazione, allargandosi magari a quei settori (come la Difesa) dove ulteriori elementi di coordinazione ed efficientamento (pensiamo all’attualissimo tema delle munizioni, nell’ambito della guerra in Ucraina) di certo non guasterebbero. L’Unione è già stata in grado di rispondere in passato: a noi elettori spetta ora la scelta se renderla in grado di agire ancora, per il presente e per il nostro futuro.
Le Pen alla finestra
In Francia la destra non è al potere e la seconda presidenza Macron prosegue, sia pure con difficoltà, realizzando politiche neoliberali come dimostrano la riforma delle pensioni (contestatissima ma approvata in parlamento) e la recentissima legge sull’ “assurance-chomage” cioè l’assicurazione per i disoccupati che riduce a poche mance, restringendo la rete, l’assegno per la disoccupazione.
La destra estrema del Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen però alle elezioni politiche del 2022 ha fatto il pieno entrando finalmente in parlamento con 89 deputati, diventando assieme alla Nupes (Alleanza delle sinistre con a capo Mélenchon) forza di opposizione non più solo nelle strade o nelle sue roccaforti locali ma soggetto di peso nelle istituzioni della V Repubblica. E Macron deve fare i conti soprattutto con l’opposizione di quella destra. La politica parlamentare è diventato un asse importante nella strategia di Le Pen che infatti ha lasciato la presidenza del partito ad un giovane suo fedele, Jordan Bardella, che si prepara alacremente alle imminenti elezioni europee, reclutando nella lista del RN personaggi provenienti dai gruppi più estremi della destra francese, magari intramezzati da alcuni presi dalla società civile pour “épater le peuple” questa volta. Così il partito “normalizzato” e rafforzato dell’estrema destra è bifronte: ha il doppiopetto parlamentare che condiziona le politiche del governo di Macron, e la veste di battaglia che rinfocola la paura dello straniero, dell’immigrato (non a caso al primo posto nei timori dei francesi, non solo degli elettori del RN).
Alleanze a destra
Allora nello scenario fin qui sinteticamente delineato, si pone una domanda non più rinviabile: perché la destra, le destre, vincono continuando a mantenere un consenso, anzi ampliando il bacino sociale da cui traggono legittimazione? Cosa ha portato in contesti nazionali diversi all’ascesa di Marine Le Pen in Francia, dell’ADF in Germania, alla vittoria di Giorgia Meloni qui Italia installando al potere una destra nazionalista, xenofoba? Una destra che ha subito trovato alleanze e consonanze con partiti come Vox e governi come quello oscurantista di Orban che la nostra premier ha definito, appena fresca di elezione, come “un modello” per riportare l’Italia sui giusti binari.
Una destra, la nostra, che sta in equilibrio, fino ad ora fra un atlantismo inevitabile, un europeismo di facciata, esibito, entrambi utili nell’attuale assetto globale, e una politica interna in cui essa governa per decreto, come avvenuto per la tragedia di Cutro o i fatti di Caivano, senza riuscire a tener fede alle promesse fatte in campagna elettorale, senza riuscire soprattutto ad abbozzare almeno una delle tante riforme di cui il paese ha bisogno.
Da qui nasce la costruzione di un discorso politico retorico comune, con varie sfumature, a tutte le destre, con i vecchi ingredienti cari ad esse, “Dio, patria, famiglia”, una triade che rassicura, recinta, chiude il cerchio protettivo fugando le insicurezze di alcuni strati sociali, quelli sbattuti nella paura della globalizzazione come alberi fragili da un vento insidioso. La premier comunica nella dimensione del soliloquio, oscillando fra la retorica di chi si tiene stretto spavaldamente lo scettro del potere raggiunto e la caduta in posture e boccacce da cabaret come di recente avvenuto nel suo discorso in parlamento. L’Italia però non è fatta solo dai suoi elettori.
Perché le destre vincono
Rispondere alla domanda prima posta non è facile e la risposta contiene risposte diverse, tutte parziali ma significanti se legate insieme come la pluralità di fatti, comportamenti, pulsioni individuali e collettive, ossia la costellazione di cause che presiede al realizzarsi di un fenomeno.
Proverò a mettere insieme pezzi di risposte. In primo luogo vi è un dato oggettivo, il fatto che le democrazie affermatesi con l’inizio del XX secolo oggi appaiono logorate e sono in affanno riproponendo con asprezza la tensione fra chi governa e chi è governato per varie ragioni:
• crisi della rappresentanza politica;
• venir meno dello Stato sociale,
• venir meno del perno dello Stato nazionale che non può più garantire autonomamente i bisogni dei suoi cittadini, stretto nelle maglie della politica globalizzata e delle sue leggi;
• aumento esponenziale del flusso di immigrazione, lo spettro di una “invasione”, come i partiti nazionalpopulisti affermano, e la paura del multiculturalismo, di un confronto con culture e abitudini estranee.
In questo quadro, il demos – il popolo – infiammato nel suo istinto identitario e protestatario diventa elemento prezioso per la facile retorica delle destre che gli promettono di realizzare, esse, contro una élite lontana e corrotta, le promesse della vera democrazia, secondo un’idea di società con molte grate alle sue finestre, ma protettiva per il singolo popolo che vive una condizione straniante, di spaesamento nella nuova articolazione della politica globale. Il popolo che vota a destra non cerca l’alternanza quanto piuttosto lo spezzare una politica che esso disapprova.
La paralisi del PD
In secondo luogo, l’assenza di una vera opposizione, l’assenza della sinistra, incapace di cogliere i mutamenti epocali che viviamo, di rimodulare obiettivi, strumenti, organizzazione in una realtà dove la forma politica democratica non regge più il passo con i continui cambiamenti delle società.
Il Partito democratico è incagliato in vari dilemmi interni ed esterni, cosa che lo condanna all’immobilismo, o a timidi passi che si perdono nell’arena di un paesaggio politico segnato da molte fratture. Il Pd da anni ha reciso i suoi legami con la società, l’essere un partito popolare, aperto, all’ascolto, capace di un’idea in cui la gente si identifichi e si senta garantita nei propri diritti basilari (lavoro, sanità, istruzione) e strappata alla solitudine sociale del proprio quotidiano. Deve cambiare strategia. Utilizziamo quindi al massimo questo tempo che ci separa dalle elezioni europee, anche con quel poco che abbiamo. Vi è un esilio dei valori pericoloso e noi dobbiamo riportarli a casa e in fretta.